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Tra le nostre parole, di Katie Kitamura


Da sempre l’attenzione ai corpi si transustanzia in parole nei libri di Katie Kitamura, e l’ultimo arrivato, il suo quarto romanzo, affronta la questione già dal titolo: Tra le nostre parole (traduzione di Costanza Prinetti, Bollati Boringhieri, 170 pp., 17 euro). Il libro segue la vita di una donna senza nome che lascia New York dopo la morte del padre e si trasferisce all’Aja come interprete alla Corte penale internazionale. Rinunciando agli effetti speciali, Kitamura lascia che sia la voce della sua protagonista a prendersi la scena, una voce che può dirsi tale quasi suo malgrado, abituata com’è a registrare con interesse pacato e senza tradire emozioni ciò che succede attorno a lei. Non sappiamo granché di questa giovane donna di origine giapponese, se non che è nata a Singapore e cresciuta in Francia e negli Stati Uniti, che da sempre è in cerca di un luogo che la faccia sentire in quel rifugio sicuro che chiamiamo «casa». Quello che scopriamo di lei in questa nuova città è che la sua è una vita che avviene quasi di riflesso. La ritroviamo coinvolta nei drammi delle persone con cui entra in contatto, come Jana, l’amica gallerista che assiste a un atto di violenza apparentemente casuale che diventerà un’ossessione per la nostra protagonista. Persino la sua storia d’amore sembra presa in prestito: Adriaan, l’uomo che frequenta, è separato ma rimane legato sentimentalmente alla moglie. Nel suo lavoro quotidiano, poi, la protagonista si trova a tradurre nelle sue parole quanto ha da dire in sua discolpa un ex dittatore imputato di crimini atroci. Crimini capaci di far traballare e incrinare persino la sua voce e che prendono corpo da lei, finendo per abitarla.

Benché la narratrice decida di mostrarsi ai lettori come una persona banale, forse mediocre, questo nascondino non può celare l’attrazione che molti personaggi del romanzo provano per lei. La sua percezione del reale non le consente di svelare a se stessa quanta pressione eserciti sugli altri – questa visione chiara è invece privilegio del lettore – e in tutto il romanzo la vediamo manipolata da Kitamura in un’alternarsi di presenza e distanza, di magnetismo e fascino e di come la vicinanza con amanti e amici consenta di andare avanti oppure, nei casi più sfortunati, di immobilizzarsi. Questa danza tra le parti è il modo in cui l’autrice insiste sulle motivazioni che spingono le persone a riposizionarsi nei confronti degli altri, attraverso desideri e avversioni personali.

Tra le nostre parole è proprio dove risiede il nucleo centrale della ricerca della protagonista, e questa sequenza di orrori quotidiani prende forma in parole come «fossa comune» o «pulizia etnica», viene organizzata in frasi contorte, addomesticata in un gergo giuridico che maschera appena tutto quel dolore. Le parole non ci possono proteggere e anzi fanno deragliare il vissuto della protagonista, che viene gettata in «un profondo disorientamento» come un’attrice rimasta incastrata nel suo ruolo.

Se in Una separazione, il romanzo precedente di Kitamura, l’autrice aveva scelto di concentrarsi sui meccanismi che muovono e sottendono ogni relazione, in Tra le parolesembra essere la grammatica dei sentimenti al centro dell’indagine. La protagonista diventa un mero strumento di altre menti che decidono le parole per lei, la stranezza di raccontare fatti che non le appartengono le fa provare la «scorrettezza di usare quell’io suo e non mio». La sua professionalità sta tutta nel ridurre il mostruoso all’interno del contesto burocratico e nell’esperienza – e sebbene questo non attenui le sue emozioni, determina però il modo in cui le indaga: «per esistere dobbiamo dimenticare». L’idea della responsabilità e della colpa, è allora sfuggente, mentre la protagonista si percepisce come invisibile è invece in grado di influenzare lo spazio in cui agisce tanto quanto ne è influenzata, non può cessare di essere parte e quindi complice delle istituzioni con cui collabora.

Grazie alla testimonianza della sua protagonista che si fa carico su di sé delle umane miserie dando voce e corpo a ogni iniquità, Katie Kitamura cerca di colmare la distanza tra le catastrofi della storia e i piccoli accidenti delle nostre vite.


Questa recensione è stata pubblicata sulla rivista Altri animali, qui.

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