Sei domande di cui la libraia ha graziosamente preteso la risposta da Paolo Zardi, ora in libreria con L'invenzione degli animali (Chiarelettere).
Ogni volta che qualcuno mi parla di Paolo Zardi, aggiunge sempre la precisazione «il miglior raccontata italiano di questi tempi». Ti ci riconosci? Perché hai scelto la forma racconto?
Quando lo sento dire, o lo leggo in giro, sorrido sempre. Credo che il primo a dire “questa cosa” sia stato Carlo Vanin, nel 2013, recensendo Il giorno che diventammo umani sul sito dell’associazione culturale Sugarpulp. Si tratta di un punto di vista soggettivo, ovviamente; mi fa piacere che qualcuno lo pensi, ma credo che una valutazione del genere non abbia molto senso quando viene riferita a un autore contemporaneo: di solito, per questo tipo di affermazioni conviene sempre aspettare un centinaio di anni. Scherzi a parte: leggo Paolo Cognetti, Elvis Malaj, Elia Gonella, Michele Orti Manara, Gianni Tetti e penso che esista un gruppo di ottimi autori italiani che scrivono racconti. Ecco, mi piace l’idea di poter far parte di questa leva, di essere uno di loro: mi sento onorato di questo.
Con La gente non esiste torni a casa Neo edizioni. Com’è stato questo ritorno?
La Neo edizioni è la casa editrice nella quale sono nato, che mi ha partorito (anche se la scintilla iniziale è di Giulia Belloni, quando mi ha scovato nel 2008). Quando è uscita la mia prima raccolta di racconti, Antropometria, avevano cinque libri a catalogo, e uno stand di due metri quadrati al Salone del Libro. Siamo cresciuti insieme e abbiamo vissuto esperienze intense, fianco a fianco: prima o poi sarebbe bello riuscire a scrivere un libro sui viaggi in giro per l’Italia con loro, sulle presentazioni fatte insieme, sugli interminabili scambi di mail.
La mia tendenza è quella di costruire relazioni solide – nelle amicizie, in amore, sul lavoro, nella scelta degli autori da leggere, e anche nell’editoria; e Coscioni e Biasella, i due motori di questa casa editrice, così diversi tra loro eppure così affini, sono le persone migliori con le quali costruire qualcosa.
Non si è trattato, quindi, di un ritorno: io, di fatto, non me ne sono mai andato. Si possono portare avanti progetti diversi, senza per questo perdere il proprio centro di gravità. È un po’ come accade nei gruppi musicali, quando uno dei componenti decide di seguire progetti paralleli: anche se il paragone non mi esalta, penso agli album da solista di Phil Collins, che pubblicava mentre ancora cantava per i Genesis.
Io sono Neo dentro. Mi riconosco in quel modo di intendere la letteratura e l’editoria. Per me, è casa.
In Grafemi, il tuo blog, dici che non vivi di scrittura, e la cosa ti dispiace. Ma almeno puoi «permetterti il lusso di essere libero»: cosa significa libertà nella scrittura?
Significa non dover rendere conto a nessuno delle proprie scelte, potersi permettere il grande lusso del fallimento, seguire la propria strada senza subire vincoli o pressioni. Chi ha un hobby, sa bene che la parte migliore di sé, quella che ha a che fare con la passione, la curiosità, il divertimento, i sogni, sta tutta là: nell’inventare un nuovo origami, nel costruire un modellino realistico di una nave da guerra del 1700, nel finire un berrettino di lana per il nipotino che sta arrivando. Scrivere risponde sempre a criteri di necessità estetica. Se vivessi di scrittura, se la possibilità di onorare gli impegni che ho preso nella vita reale – il mutuo, l’assicurazione della macchina, le spese condominiali e altre orribili cose – dipendesse dal particolare finale che scelgo per un libro, dalla commerciabilità del prodotto che sto realizzando, dalla corrispondenza con i gusti di lettori che non ho mai visto e che non so cosa pensano, trasformerei il mio atto creativo in qualcosa di completamente diverso. Come diceva Nabokov, l’arte è grande quando è del tutto inutile.
Tra i tuoi propositi per il 2019 c’era la volontà di percorrere le possibilità della letteratura con l’affrancarsi, ad esempio, dai vezzi e dagli stereotipi di un’Italia scordata e nostalgica degli anni che furono. C’è urgenza di un nuovo linguaggio scritto?
Mi capita, più di qualche volta, di dover valutare racconti, specialmente per concorsi: trovo spesso un’aderenza quasi pedissequa a modelli di sessanta o settanta anni fa. L’Italia che emerge da queste storie è rurale, piena di vecchie zie e nonne che fanno la salsa in casa, di bambini scalzi con nomi improbabili e soprannomi leziosi, di afrore di piante aromatiche, macchine scassate, partigiani, animali da cortile, nonni solenni e patriarchi che parlano solo in dialetto… è tutto bello, e tutto già visto. Una giornalista, alla quale era toccato il compito di introdurmi a una presentazione, mi aveva detto prima di iniziare: “guarda, te lo dico, per me il racconto arriva fino a Fenoglio”. Fenoglio! Quando è morto c’era ancora Kennedy, in America, e Papa Giovanni XXIII seduto in Vaticano! I grandi del passato sono le radici dei grandi del presente – io stesso amo Shakespeare, Sterne, Flaubert, Svevo, Kafka: si deve partire da là, quasi necessariamente, direi, ma poi si deve trovare la forza di inventare una lingua, e delle storie, che dicano qualcosa di diverso. Non mi interessa il moderno in quanto tale, ma allo stesso modo non mi interessa leggere la copia della copia di un autore di settanta anni fa, che ho già letto, che ho amato, e che, se è stato davvero grande, ha esaurito tutto quello che c’era da dire sull’argomento.
Sei un esploratore delle forme di scrittura: racconto, romanzo, di recente sceneggiatura per un fumetto (Innuendo, con i disegni di Luca Gagliasso, Miraggi). Qual è la tua forma più congeniale e quella con cui ti diverti di più?
Nessuna preferenza. Mi piace scrivere tout court, e considero la lunghezza di una storia come uno dei tanti dettagli che concorrono a definirla. Il punto di partenza è sempre il nucleo di ciò che si vuole raccontare: è lui che determina la forma necessaria per rappresentarlo. Alcuni dicono che do il meglio nei racconti, ma Francesco Coscioni, il mio editore, mi ricorda che con il secondo romanzo che ho scritto, XXI secolo, sono finito nella dozzina dello Strega.
Comunque, ogni forma presenta le sue gioie e i suoi dolori. Il racconto dà una soddisfazione quasi immediata – anche se la gestazione può durare anni, il tempo che intercorre tra l’inizio e la fine della scrittura non supera mai i due giorni –, ti consente di sperimentare senza il timore di aver sprecato troppo tempo. Il romanzo, di contro, è come una casa costruita a mano: i tanti sacrifici che richiede sono poi ricompensati dal risultato finale.
«Se due o tre anni fa qualcuno mi avesse chiesto di dare una definizione di ciò che faccio nella vita, e mi avesse obbligato a usare una sola parola, probabilmente avrei detto “ingegnere”», racconti in Grafemi. Ora invece rispondi che sei uno scrittore. Cosa cambia, questa consapevolezza, nello scrivere?
È stato un passaggio graduale, ma necessario. Saul Bellow, in uno dei saggi raccolti in Troppe cose a cui pensare (SUR editore), dice che “prima di scrivere un romanzo, uno deve pensarsi come un romanziere. Se non si considera tale, non sarà mai in grado di diventarlo”. Esiste una sorta di timore, nel dirsi scrittore, come se, facendo una simile affermazione, si stesse usurpando un titolo che non si è meritato. La verità è che essere scrittore non ha nulla a che fare con la pubblicazione, con l’editoria, con il riconoscimento da parte di un pubblico più o meno vasto, con le recensioni, i voti su Anobii o i giudizi degli acquirenti di Amazon: significa semplicemente riconoscere in se stessi l’aspirazione a voler organizzare il mondo che ci circonda attraverso la narrazione di una storia – di volerlo fare sul serio, in ogni momento della propria giornata. Non c’è nient’altro che questo. Io lavoro otto o nove ore al giorno, cinque giorni alla settimana; gestisco progetti, ideo e realizzo soluzioni informatiche, partecipo a riunioni, invio mail, scrivo codice, imparo nuove tecnologie, e in tutto questo sono presente al cento per cento. Sotto, però, in ogni interstizio libero, nel tragitto che faccio in bici per andare in ufficio, nei viaggi in treno, nei dieci minuti che impiego per prendere sonno, quando nello sguardo di una persona intravedo l’inizio o la fine di un racconto, ogni volta che leggo una notizia sul giornale, o ascolto la conversazione dei tizi al tavolo accanto, o salgo su un autobus pieno di gente, o leggo un libro, io sto scrivendo – cioè cerco di dare un senso narrativo al mondo. Ed è questo ciò che sono, sempre, in ogni momento del giorno e della notte. Faccio l’ingegnere, certo, ma sono uno scrittore.
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