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Percival Everett

In questo anno nuovo 2018 la mia coscienza si è svegliata consapevole della necessità di veder scritte recensioni da una persona in più. Questa persona in più sono, naturalmente, io.


Giorni fa, conversando con un caro amico, confessavo il mio diletto nel leggere la pervicace arroganza di Karl Kraus in un suo scritto magistralmente commentato da un altro illustre arrogante del nostro tempo, Jonathan Franzen. Questo mio brillante amico mi invitò a leggere quindi “Percival Everett di Virgil Russell” di Percival Everett, che mi provoca godimento anche nel solo ripeterne il titolo a voce alta. Siamo al momento di parlare della trama. Orbene, un uomo va in visita nella residenza per anziani dove ha fatto ricoverare il padre. Questo figlio non è così solerte nelle sue visite e avverte strisciante l’amarezza di aver lasciato questo padre nelle mani di degenerati inservienti. Il padre che non riesce quasi più a muoversi vuole scrivere un romanzo. O forse no; forse è il figlio che scrive, immaginando il padre nell’atto della scrittura. O ancora, no. Il padre sta scrivendo il romanzo ma lo fa come se fosse il figlio lo scrittore. La volontà della creazione passa fluidamente dall’uno all’altro uomo senza soluzione, modulando protagonisti, personaggi e fatti sull’impulso del momento. La narrazione si piega sulle vicende di un addestratore di cavalli, ora si stende lungo le visite di un tuttofare, ma no, è un medico che prende in cura il più grasso di due fratelli. Ecco Nat, lo schiavo ribelle. Ecco Martin Luther King e il suo discorso. La trama vera del libro è il linguaggio, che Everett padroneggia fluidamente plasmandolo all’occorrenza in tutto ciò di cui ha bisogno, con serietà e disillusione.


DAVE: Il linguaggio non è immateriale. (Annuisce, sorride e ridacchia). È un corpo sottile, ma pur sempre un corpo. Le parole sono racchiuse nelle immagini concrete che definiscono il soggetto. Possono ispirare gravidanze isteriche, identificarsi con l’oggetto che suscita l’invidia del pene, rappresentare il fiotto d’urina dell’ambizione uretrale o l’escremento trattenuto del piacere egoistico.

IO: Tua madre non ti voleva bene, vero?


A che serve torcere, strizzare, dilatare il testo in questo modo? È una risorsa contro la verosimiglianza, la verità; «la verità è trita, ormai, e forse non trita bene». L’urgenza umana di costruire una storia, uno schema narrativo coerente, che abbia un senso o che finga almeno di averlo è solo vaniloquio, illusione, «in fondo non esiste nessuna storia»; allunghiamo il brodo per gli allocchi, quando invece sono i piccoli dettagli che ci dicono chi siamo, dove siamo e perché. Il libro è un esercizio di lettura incoraggiante per l’avido lettore che non si spaventa: l’enunciato assurdo richiede una comprensione molto maggiore rispetto alla più semplice e banale delle affermazioni (e già questa è una semplice e banale affermazione). Il più nitido e chiaro capolavoro dell’assurdo non fa altro che sottolineare l’incapacità del lettore di capire qualunque cosa (ah, ecco perché mi ricordava l’arroganza di Franzen che analizza l’arroganza di Kraus). Se questa lettura della narrazione intrecciata al dialogo col lettore non fosse sufficiente a farvi innamorare dell’opera, l’editore Nutrimenti aggiunge sul piatto una carta preziosa e morbida e profumata, la Musa della cartiera Burgo (sì, sono una libraia che annusa i libri), caratteri scelti con attenzione e una meravigliosa illustrazione di E. J. Sullivan del 1898 sul risguardo. Una perla nel testo che ci aiuta durante le giornate difficili nelle trattative con l’altro da sé viene suggerita da Everett a pagina 44: «Polarizza la traiettoria di questo dito, stupida testa di cazzo». Amo l’efficacia poetica di Everett, ancorché in una certa misura sovversiva.


Percival Everett, Percival Everett di Virgil Russell, Nutrimenti Edizioni


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