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Gente

«Mi piace il salto rapido di un buon racconto, l'emozione che spesso comincia già nella prima frase, il senso di bellezza e mistero che si riscontra nei migliori esemplari» dice Raymond Carver, che di racconti se ne intendeva abbastanza. E di prime frasi che trascinano dentro la storia anche Paolo Zardi ne sa qualcosa: «Nell’afrore postprandiale che si propaga dal tavolo piazzato sotto gli olivi fino ai bordi della campagna, in quell’abbandono che somiglia a un acconto di morte calda e secca, ci prepariamo per il mare: io sono stanco, tu hai gli zoccoli olandesi che avevi comprato ad Amsterdam e un paio di occhiali che non ti avevo mai visto addosso», e così inizia Controluce, che ci tira dentro una calda estate in poche righe, nel racconto contenuto nella raccolta La gente non esiste (207 pagine, Neo Edizioni, 2019). La gente non esiste, eppure il suo sistematico scivolare su di noi ci leviga ben bene, riduce all’essenziale i nostri nervi con la stolida costanza di una lenta marea; e allora forse quello che serve per sopravvivere è assomigliare a un batterio, l’Escherichia Coli, che nel racconto omonimo stabilizza la propria direzione per seguire il cibo o fuggire dal pericolo, fintantoché «non serviva molto per sembrare intelligenti: desideri minimi, e grandi paure».


La vita nei racconti di Zardi è una promessa non mantenuta, di cui ci si avvede senza brusche frenate ma in un risveglio come mitigato dalle benzodiazepine, o da una droga ancora più potente: la rassegnazione. Se la vita è un sogno sbagliato, la morte è diventata argomento da accantonare, da nascondere come tutto ciò che non ci piace. Così in Neolingua non sappiamo più parlare dei morti - o parlare ai morti - perché le parole che li riguardano le stiamo cancellando: non sarà un caso che sui social non esiste il tasto Non mi piace. Non c’è solo cupa acquiescenza nei racconti di La gente non esiste: anzi, quello che tiene in piedi i protagonisti è l’umorismo del cinico, del sopravvissuto che conta su di sé non per ottimismo ma per aver scelto l’unica giocata possibile su cui puntare, e d’altra parte «ringraziare un Dio che ti risparmia da una calamità da lui stesso provocata, poteva essere interpretato come un classico sintomo della sindrome di Stoccolma».

La scrittura appuntita di Paolo Zardi, a tratti raggelante nella sua cruda sincerità, non perde attimi di tenerezza: Le sottili pareti del cuore è una carezza, una moina in mezzo a tanta scanzonata impudenza, i suoi suoni, i dialoghi e i gesti dei personaggi ricordano la scena del ritmo in Delicatessen, film grottesco di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro del 1991.


Quando siamo fortunati, capita che ci si imbatta in racconti che, finito l’ultimo paio di righe, ci facciano restare seduti per un minuto o due in silenzio, lasciando che l’eco delle ultime parole lette decanti sul fondo della nostra testa. Magari, se siamo ancora più fortunati, questi brevi viaggi ci hanno fatto andare avanti di un passo o due rispetto a dove eravamo quando siamo partiti col libro in mano. La gente non esiste ci racconta pezzetti di esistenza, istantanee di persone comuni dai desideri infranti o consumati, e i passi che concede al lettore riguardano l’idea della vita, non come ciò che è stato sognato «ma la sua forza palpitante, furiosa, e perfino crudele, aveva un sapore che nessun sogno aveva mai avuto: ti prendeva a schiaffi, e i segni sul viso bruciavano».


Recensione originariamente pubblicata su Radiosonar.net, proprio qui.

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