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Le voci femministe dell’islām


«Sono andata in carcere per poter essere libera.»

Nawal al-Sa’dawi, 2011


Voci di piazza

C’è l’islām nelle rivoluzioni? C’era Dio in piazza Taḥrīr, al Cairo durante una delle più grandi manifestazioni delle primavere arabe, a cantare per il pane e la libertà? Come diceva lo «sceicco della rivoluzione», Emad Effat, religioso sunnita della moschea al-Azhar, l’aria nella piazza era più sacra di quella della Mecca, perché c’è più urgenza divina in una piazza che nel più sacro luogo di nascita dell’islām. Il 24 novembre 2011, durante gli scontri al Cairo iniziati a Mohamed Mahmoud Street, a due passi da piazza Taḥrīr, la polizia carica i manifestanti: tra loro c’è Mona Eltahawy, scrittrice pluripremiata, editorialista del New York Times e attivista per i diritti LGBTQIA+ nel mondo arabo. La polizia le spezza un braccio e la mano destra, e la molesterà sessualmente. Eltahawy resta in detenzione per dodici ore, interrogata prima dal ministero degli interni e poi dall’intelligence militare. Quando più avanti riesce a parlare con la famiglia, la madre le chiederà: «Hai sentito di Emad Effat?». Il religioso, tra i simboli della rivoluzione, era morto per i colpi sparati dai militari in piazza. A darne la notizia fra i primi, Yasmine El Rashidi, un’altra scrittrice, un’altra voce pubblica in piazza con le altre. In piazza Taḥrīr «per la prima volta ho provato la sensazione che le donne sono uguali agli uomini» confessa Nawāl al-Sa’dāwī. Al-Sa’dāwī è un’autrice che si è divisa su più fronti fra l’attivismo, la pratica medica e la letteratura. Negli anni Ottanta è stata incarcerata per tre mesi per «crimini contro lo stato», esperienza durante la quale ha scritto un libro sulla vita carceraria nella sezione femminile, utilizzando eye-liner e carta igienica, che verrà pubblicato nel 1984 con il titolo Memoirs from the Women’s Prison.[1]


Le donne sono le voci della rivoluzione, e si riappropriano dei principi coranici che predicano giustizia: da lungo tempo, scrive Eltahawy nella prefazione a Occupy Spirituality di Adam Bucko e Matthew Fox,[2] in Egitto gli ‘ulamā’ e i muftī sono diventati gli uomini dello stato più che gli uomini di Dio; allora dove è la fatwā contro le baraccopoli con le fogne a cielo aperto? Dov’è quella contro la fame e l’abbandono dei poveri? Una fatwā è un pronunciamento legale emanato dal muftī che indica se un’azione sia permessa o proibita dalla legge islamica, la sharī’a. Eltahawy suggerisce che a piazza Taḥrīr la folla abbia emanato, nei fatti, la sua di fatwā: si può sparare sui manifestanti? Mai, è la risposta. Perché se gli uomini religiosi che rappresentano lo stato si frappongono tra la gente e l’idea di giustizia, rendendosi colpevoli di torture e brutalità, allora è giunto il tempo di reclamare un’altra spiritualità: «il mio Dio non spalleggia i dittatori e chi li sostiene. Io prego il Dio del Pane, della Libertà e della Giustizia sociale» dice Eltahawy. I libri, le scrittrici che rivendicano il posto in piazza e la voce per gridare sono parte della storia e della rivoluzione, non solo nella dimensione del mondo arabo ma in quella globale, nell’internazionalismo delle lotte: «Ci siamo dentro insieme. Cadremo e ci rialzeremo insieme. Condividiamo il coraggio e la solidarietà, insieme. Abbiamo bisogno che i nostri anziani e i nostri giovani si sollevino insieme».

Nel 1982 Eltahawy è una quindicenne al suo primo ḥajj, il pellegrinaggio al più santo sito dell’islām, la Ka’ba della Mecca, in Arabia Saudita, quando viene molestata due volte: «Mi vergognavo ed ero traumatizzata e, cosa più importante, sono rimasta in silenzio» ricorda in The Seven Necessary Sins for Women and Girls.[3] Anni dopo, forte dell’insegnamento di un’altra scrittrice e femminista, la poeta Audre Lorde, «your silence will not protect you», Eltahawy dà voce a questa storia durante un incontro internazionale di donne al Cairo. Man mano che il racconto prende forma, sempre più compagne arabe confermano un’esperienza identica, nello spazio sacro del mondo musulmano, una violazione non soltanto del corpo della donna ma della purezza stessa del pellegrinaggio. Questa storia compare anche in Perché ci odiano,[4] e per alzare il livello di consapevolezza nel mondo arabo Eltahawy ha creato e lanciato l’hashtag #MosqueMeToo; a seguito del clamore internazionale, l’Arabia Saudita nel 2017 prenderà misure precauzionali per la sicurezza delle donne durante l’ḥajj.


Se dai tempi di Ibn al-Ǧawzī, teologo arabo del XIII secolo, le donne non devono occupare gli stessi spazi degli uomini in moschea, per non distrarli dalla preghiera, ancora oggi una ragazzina è rimandata a casa, in Egitto, se non indossa correttamente il velo dell’uniforme scolastica: col capo scoperto incoraggia i compagni di classe e finanche i professori al peccato. Che sia un masǧid[5] del XIII secolo o una scuola del terzo millennio, il marchio della colpa e della vergogna è sempre assegnato alle donne: «sicuramente dovremmo insegnare ai ragazzi fino dalla giovane età a non molestare le ragazze, così che diventeranno uomini che non assalgono le donne, indipendentemente da come queste sono vestite».

Nel 2011 in Egitto molte donne hanno portato la sfida fin dentro la famiglia e smesso di portare l’hiǧab, il velo o il niqāb (che occulta tutto il corpo tranne gli occhi) adottando un chiaro imperativo: per liberare l’Egitto si deve per prima cosa liberare se stesse. La rivoluzione non era più solo in piazza Taḥrīr, ma in ogni casa egiziana, e la rivoluzione era anche la lotta al patriarcato.

Indossare o meno il velo fa parte delle scelte individuali legate all’autodeterminazione della singole persone nell’islām; tuttavia, è stato ed è ancora usato come uno strumento di oppressione. Un sondaggio del 2014 condotto dall’Institute for Social Research dell’università del Michigan in paesi a maggioranza musulmana come Egitto, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Tunisia e Turchia ci informa che il 44 percento degli intervistati preferisce che le donne si coprano i capelli in pubblico; il 10 percento che si coprano dalla testa ai piedi, volto compreso, con burqa o niqāb. Quest’ultima percentuale in Arabia Saudita sale al 63 percento. L’attuale prevalenza del velo nei paesi arabi è uno dei punti dell’oscillazione di un pendolo, un andirivieni tra abbigliamento conservatore o liberale, spesso descritto come un eterno peregrinare tra «Islām» e «Occidente»: una dicotomia che rende difficile muovere critiche alla questione senza che l’hiǧab diventi una cesura tra due culture. Secondo la scrittrice e sociologa marocchina Fatima Mernissi «tutte le religioni monoteiste sono attraversate dal conflitto tra il divino e il femminile, ma nessuna si è spinta tanto lontano quanto l’islām, che ha optato per l’occultazione del secondo, almeno simbolicamente, cercando di velarlo, nasconderlo, mascherarlo».[6] Questo atteggiamento verso la donna è tanto più sorprendente in quanto si è visto il Profeta Muḥammad incoraggiare i suoi adepti a rinunciarvi, poiché rappresenta l’«età dell’ignoranza» pre-islamica, la ǧāhiliyyah e le sue superstizioni.



La misoginia nella prospettiva storica dell’islām

Gli stereotipi occidentali sulle donne musulmane poggiano su consolidate basi coloniali che hanno di fatto regolato ogni nostra interazione con l’Oriente. Prendiamo come punto di partenza di questo articolo un momento gravido di conseguenze, così come ci viene raccontato in Orientalismo da Edward Said: Gustave Flaubert incontra una cortigiana egiziana, Kuchuk Hanem (dal turco kuçuk hanım, «piccola signora»), che è stata una famosa e bellissima danzatrice di Esna, vicino Luxor, in Egitto. Viene citata in diversi racconti, oltre a quelli di Flaubert, e tra i più famosi il resoconto del viaggio in oriente di George William Curtis, un avventuriero americano. Flaubert la incontra durante il suo soggiorno egiziano tra il 1849 e il 1851, e ne fa la sua modella letteraria per le danzatrici protagoniste dei racconti La tentazione di Sant’Antonio e Erodiade. È in quel momento che per Said nasce un paradigma letterario della donna araba destinato a durare nel tempo: «ella non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. È Flaubert a farlo per lei. Egli è uno straniero di sesso maschile e condizione relativamente agiata, e tale posizione di forza gli consente non solo di possedere fisicamente Kuchuk Hanem, ma anche di descriverne e interpretarne l’essenza».[7] Docile, sottomessa, Kuchuk entra nell’immaginario dell’esotico occidentale.


Questo è l'incipit della recensione pubblicata su Altri animali, e trovate il resto qui.

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