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La memoria del sapore


«Mentre cercavo di consolarle raccontavo loro la città nelle pratiche del cibo» scrive Antonella Ottai, che in Il croccante e i pinoli (Sellerio, 2009), in guisa di un libro di ricette, ci recapita un memoriale famigliare e intimo, un’invenzione del quotidiano per sé, per la figlia, per gli amici che affollavano la sua sala da pranzo. Una ricetta dopo l’altra, Ottai ripercorre la storia della propria casa: mescolando pasta coi broccoli, soffritti, semolini e torta di mele, per non dimenticare il gusto ungherese del tokany, in questo libriccino si ritrovano i sughi profumati ma anche la ricerca dell’identità che passa attraverso i gusti riconoscibili e nostalgici dell’infanzia fino alle sperimentazioni dell’età adulta. Antonella Ottai è figlia di un padre ebreo ungherese e di una madre abruzzese esiliata a Roma con uno strappo mai ricucito dalla terra natia. Roma è la città che li accoglie o li respinge a seconda dell’umore metropolitano, teatro di tavole imbandite con pasti ostentatamente «italiani», di sughi al pomodoro in cui annegare ogni vezzo culinario nella smania di sembrare «normali». Roma è anche «un non luogo dove emergevano piccole patrie, il pianerottolo, gli orti di guerra, le comunità straniere. Vivevamo intanto con un permesso di soggiorno illimitato, che quanto meno consentiva a mio padre di esercitare svariati lavori che avevano in comune solo l’occasionalità, la precarietà e la flessibilità, ma che lo rendeva soggetto ai controlli esercitati periodicamente da poliziotti con cui condividevamo probabilmente, oltre che l’eloquio, il sugo quotidiano». La pasta coi broccoli, con le salsicce sbriciolate e soffritte e la verdura strascinata in padella in segno di addomesticamento degli ingredienti, diventa «un’isola verde pallido di identità» e restituisce alla madre dell’autrice tracce effimere di un passato in Abruzzo che resistono tenacemente alla forzosa inurbazione romana.


Nell’esistenza precaria e caotica la pratica del cibo richiama a intervalli regolari le mani al lavoro della cucina, i cui gesti coerenti riempiono il tempo e lo spazio quasi a scongiurare tristezze e trappole della depressione, oppure più semplicemente a declinarle nel quotidiano. Questi gesti ripetuti, così come i sapori che ne risultano, distillano una memoria fertile e persistente dai semi dell’oblio. Ogni ricetta e la sua esecuzione materiale e casalinga sono la rappresentazione in movimento di una fotografia che pesca le proprie suggestioni olfattive dai ricordi, efficace laddove le vere istantanee sono cancellate dalla penna, dalla sbadataggine o dalla memoria, le mani ricordano i gesti che a loro volta portano a galla le storie vecchie, «fatte anche dei modi con i quali un’azione coniuga la propria esistenza e contratta la propria durata. Solo quando le raccontiamo le strade che abbiamo preso si riconciliano con quelle che avremmo potuto prendere e gli cedono senso».


Recensione originariamente pubblicata su Al di là degli stereotipi, proprio qui.

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